La mia di questi tempi è una età di riflessione e di revisione profonda della mia esistenza terrena, anche se, per professione, ho sempre analizzato quotidianamente in profondità ogni mio atteggiamento e comportamento, e avendo scritto e pubblicato cento e più libri ho potuto portarli alla attenzione dei miei lettori, come cerco di fare in questo blog. In questi giorni ho ripensato a quando poco più che trentenne mi diagnosticarono un tumore al cervello, o meglio sul nervo dell’orecchio destro. Un neurinoma. Appena saputo la diagnosi mi misi a cercare un buon neurochirurgo per asportarlo. Feci tutto, come al solito, da solo. Come ben sanno i lettori più fedeli dei miei libri non ho, purtroppo, avuto figure parentali di riferimento e ho dovuto abituarmi fin da piccolo ad arrangiarmi da solo. Come hanno dovuto fare tanti ragazzi nati come me nel primo periodo periodo post seconda guerra mondiale. Non parliamo di quelli nati negli anni precedenti. Erano culture e civiltà diverse da oggi. Per me allora il saper cavarsela da soli, il diventare autonomi e indipendenti fin da ragazzi erano le parole d’ordine, obbedienza, rispetto, competenza. E così una volta trovato il neurochirurgo bravo al ” Besta ” di Milano mi ricoverai da solo e attesi l’intervento chirurgico. Ero già un promettente giovane psicioanalista con il suo studio professionale nel centro città di Milano e sorrido pensando alla segretaria addetta ai ricoveri che mi vide arrivare abbronzato e con la mia valigetta che mi chiese: devo ricoverare una sua paziente ? Ma no, risposi, sono io il paziente! Anche a quei tempi, come ancora oggi, quando ti vedono arrivare in ospedale da solo, spogliarti, sottoporti a esami e a interventi, noto che il personale medico ti guarda sorpreso. Ma la mia vita è sempre stata così. Sono abituato. E, confesso, che se fossi accompagnato ora proverei fastidio. Soli nasciamo e soli moriamo, ho sempre scritto. E così ho vissuto coerentemente, certo finchè potrò, finchè Dio vorrà. Torniamo al tumore, in tre giorni feci l’intervento e due giorni in rianimazione. Ne uscii storpiato, ancora oggi porto una paresi facciale nella parte destra del volto. Ma per un errato senso del coraggio non denunciai il chirurgo. Ora penso che non fu coraggio, ma, al contrario, un senso di paura per affrontare il processo e la maledetta burocrazia italiana. Non solo. Ma il mio non era un cancro, una metastasi, era un tumore benigno che, pur trovandosi in una posizione complessa, dentro il cranio, aumentava lentamente. Quando lo asportarono era circa due centimetri. Ora ripensandoci, il vero coraggio sarebbe consistito nel tenerlo controllato ogni anno e vedere quanto aumentava e poi, eventualmente, asportarlo. E pensare che, a quel tempo, mi intervistarono e mi fecere un lungo servizio circa il mio coraggio sulla “Domenica del Corriere” un periodico di allora, con il titolo ” Il coraggio di un giovane psicoanalista”. Oggi lo stesso intervento si fa senza trapanare e, con una sega, tagliare la calotta cranica come hanno fatto a me. Così van le cose. Dunque cari lettori di questo mio blog riflettete sulla natura del coraggio. Che Dio vi benedica.
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1 Commento
Grazie Valerio per questa importante riflessione che mi indirizza ad essere più accorta prima di prendere una decisione.
Un cordiale saluto Nadia.